Per ora l’autunno si prospetta all’insegna della calma piatta, ma non è comunque da escludere una stretta già tra pochi giorni. A fine agosto, tra le verdi montagne del Wyoming, una Janet Yellen particolarmente cauta aveva ammesso che “negli ultimi mesi la possibilità di un rialzo dei tassi si è rafforzata”. Ciononostante dal simposio tanto atteso non era emersa una reale volontà di agire, ed un rialzo in occasione della riunione FOMC del 20 e 21 settembre 2016 appariva poco probabile, soprattutto a poche settimane dalle elezioni presidenziali USA, sulle quali una stretta potrebbe creare tensioni con ripercussioni sulla corsa per la Casa Bianca.
L’attenzione era rivolta perlopiù a fine anno, nel caso in cui i dati dell’economia statunitense si fossero confermati positivi. Questo almeno fino a venerdì 9 settembre 2016, quando il presidente della Fed di Boston, Eric Rosengren, ha detto che l’economia Usa rischia di surriscaldarsi se la Banca centrale aspetterà troppo ad alzare i tassi: tale dichiarazione lascia intendere che un anticipo del rialzo dei tassi da parte della Fed rimane comunque una possibilità.
Come noto, gli obiettivi che si pone la Fed sono sostanzialmente due: perseguire la piena occupazione e mantenere stabile l’inflazione. Per affrontare la crisi la Fed ha tagliato i tassi di interesse fino a livelli prossimi allo 0%. Negli ultimi otto anni li ha incrementati solo una volta, lo scorso dicembre, di appena 25 punti base, ma ad inizio anno erano stati preventivati quattro aumenti, per il momento incompiuti.
La maggior parte degli analisti è ormai convinta che l’economia Usa sia prossima alla piena occupazione, ma il dato sulla creazione di nuovi posti di lavoro in agosto, nettamente più bassa dei mesi precedenti e delle stesse attese degli analisti, ha rappresentato un motivo di incertezza per gli addetti ai lavori. Nonostante quest’unico neo, una visione di insieme all’economia americana permette di affermare che essa sia in recupero. La disoccupazione è scesa, forse non quanto desiderato ma è scesa, e le aspettative di crescita si attestano attorno al 2% per quest’anno. Non un quadro da sogno, ma comunque invidiabile per molti altri Paesi sviluppati, e un mancato rialzo dei tassi adducendo come motivazione un’economia poco efficiente appare poco credibile. Nel corso del tempo si sono presentate più occasioni per intervenire sulla politica monetaria, e si è rinunciato per vari motivi: lo scorso anno per tutelare la Cina, ad inizio anno per le tensioni sui listini e più recentemente per la Brexit.
Nel Vecchio continente, l’attenzione è stata invece catturata dalla Bce di Mario Draghi, che si è riunita giovedì 8 settembre: come ci si aspettava i tassi sono stati lasciati intatti, ma la mancata proroga del Quantitative easing oltre la già stabilita scadenza di marzo 2017 e l’assenza di correzioni tecniche per rendere più ampia la gamma di titoli da acquistare ha in parte deluso i mercati. La motivazione è stata che al momento la situazione dell’economia non richiede un intervento ancora più espansivo di quello in corso, ma se dovesse presentarsene la necessità la banca centrale conferma la sua volontà di agire, il che lascia aperta la porta a nuove iniziativa già a dicembre.
Il 20 e 21 settembre 2016, oltre alla già ricordata riunione FOMC, assisteremo anche alla riunione del board della Bank of Japan, che ha in programma di rianalizzare la propria politica monetaria poiché, nonostante tutti gli sforzi già compiuti dal governo nipponico nel tentativo di stimolare l’economia, la banca centrale rimane ben lontana dal raggiungere il target di inflazione al 2%.
In tutto questo i mercati si stanno riposizionando adattandosi ad uno scenario meno accomodante, con lo S&P 500 in picchiata dopo due mesi di stazionamento sui massimi, l’Euro Stoxx 50 che ha rotto la trend line positiva valida dai minimi post Brexit, il dollaro che si sta rafforzando contro le principali valute, compreso lo Yen, bene rifugio per eccellenza.
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