Il 9 agosto del 2007 scoppiava il virus dei mutui subprime. È indelebile nella mente l’immagine dei dipendenti di Lehman Brothers, ormai fallita, con gli scatoloni colmi di affetti personali e amarezza. L’inizio della più grave recessione dalla grande depressione del 1929 porta la firma di un colosso della finanza, BNP Paribas, che dichiara l’impossibilità di calcolare il Nav di tre suoi fondi investiti in mutui ipotecari americani. Si apre il baratro, complici il crescente numero di debitori incapaci di far fede ai propri impegni, i tassi in rialzo e la scarsa trasparenza di un mercato in cui la cartolarizzazione era ormai la regola.
Se la reazione dei mercati è stata immediata (ed intensa), altrettanto non possiamo dire degli interventi delle Banche centrali. Gli allora governatori, Ben Bernanke alla Fed e Jean-Claude Trichet alla Bce, non intuirono subito l’ordine di grandezza del disastro, ritardando le manovre opportune e trovandosi poi a dover ripiegare su contromisure di natura mai sperimentata prima. A parziale discolpa delle autorità, dobbiamo ricordare che lo spettro dell’iperinflazione (buffo parlarne oggi…) di sicuro non incentivava il ricorso a politiche monetarie espansive, deleterie se somministrate in dosi eccessive.
In questi dieci anni si è fatto davvero molto, spesso in modo confuso o non adeguatamente coordinato, talvolta in modo contraddittorio, ma certo questi anni passeranno alla storia come particolarmente fertili di soluzioni poco convenzionali. È vero però che il Pil della maggior parte dei Paesi non ha ancora riconquistato i livelli pre-crisi, azzoppato dalle politiche di austerity, ed è vero anche che siamo oramai disabituati a stimare il rischio, impigriti dalla paterna presenza delle banche centrali e rilassati dalla camomilla della liquidità.
Dieci anni dopo, in occasione dell’annuale summit di Jackson Hole, troviamo nuovi volti a guidare con prudente fiducia il ritorno alla normalità, percorso necessario per ricaricare le munizioni e fronteggiare eventuali nuovi tzunami sui mercati.
Tuttavia, chi dal Wyoming desiderava trarre nuovi indizi sulle prossime mosse dei banchieri è rimasto deluso. Ben poche parole sono state spese a tal riguardo, lasciando ampio spazio a temi di carattere politico, con particolare focus sulla Casa Bianca e sui rischi di un ritorno al protezionismo o, peggio ancora, di una rivoluzione nel sistema di regolamentazione della finanza. La tirata d’orecchie a Trump, elegantemente mai citato, non basta a distrarre gli investitori, ai quali non è passato inosservato il voto di silenzio di Draghi.
Il primo effetto è sull’Euro, schizzato oltre quota 1.19, livelli che non si vedevano dall’inizio 2015. D’altronde il Quantitative easing funziona, procederà secondo quanto già stabilito ed anche oltre, se necessario. Il mantra di Draghi ora trova nuovi proseliti anche tra i falchi tedeschi, spaventati dall’Euro troppo forte che potrebbe minare le esportazioni, come paventato dall’indice Zew al di sotto delle attese.
Degno di menzione è stato anche il riflesso sull’oro, che ha violato la resistenza valida nell’ultimo anno a 1300 dollari l’oncia, anche per effetto dell’indebolimento dell’unità di misura.
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