L’autunno, che qualche settimana fa si prospettava all’insegna della calma piatta almeno fino alle presidenziali dell’8 novembre 2016, si sta invece rivelando più avvincente di quanto ci si potesse aspettare.
Volendo dare un giudizio complessivo sullo stato di salute dell’economia globale, le condizioni del paziente non destano particolari preoccupazioni, nonostante la recente revisione al ribasso delle stime di crescita da parte del Fondo Monetario Internazionale. L’economia statunitense procede discretamente bene, il livello di occupazione è rassicurante e stimola i consumi, in Europa gli effetti della Brexit, ad esclusione delle reazioni di panico del day-after già rientrate, non si sono ancora manifestate (ma ragionevolmente arriveranno). L’unica nota dolente di rilievo è rappresentata dalla Cina, con il crollo dell’export a settembre (si è infatti registrato un calo dell’ordine del -10% sullo stesso mese del 2015), peraltro inaspettato, considerate le attese sul -3%. La crescita interna sembra stabilizzata grazie alla politica monetaria accomodante e soprattutto al sostegno alla spesa per le infrastrutture, ma non possiamo ignorare la debolezza degli investimenti privati, il debito corporate crescente e l’eccesso di capacità industriale; ciononostante i dati sulla bilancia commerciale cinese mettono in luce una debolezza della domanda mondiale che comunque ha margini di miglioramento.
L’impostazione positiva di fondo presenta quindi alcune contraddizioni che lasciano grande spazio agli eventi politici in programma nell’influenzare la ripresa economica. Oltre alle elezioni negli Stati Uniti, il prossimo anno saranno Francia e Germania ad essere chiamate alle urne, e l’instabilità politica carica le banche centrali di un ulteriore peso nel rilancio dell’economia mondiale.
Proprio negli scorsi giorni la Fed ha ricordato che il rialzo del costo del denaro arriverà relativamente presto e che già a settembre 2016 la stretta era un’ipotesi concreta, ma le tempistiche rappresentano tuttora terreno di scontro tra “falchi” e “colombe”, con i primi che denunciano i rischi di una strategia troppo attendista, abbracciata invece dalla presidentessa Janet Yellen, e che auspicano un ritorno alla normalità graduale ma puntuale. Le “colombe” descrivono invece una ripresa ancora non saldamente avviata e sostenuta da solidi fondamentali, nonostante la costanza dei miglioramenti sul fronte occupazionale, già rammentati.
Analisi di mercato: perché la frenata delle Cina preoccupa
I mercati sembrano scontare puntualmente questi fattori: lo S&P 500, pur non lontano dai massimi assoluti di quest’estate, ha lateralizzato a lungo poco sotto di essi, e il 13 ottobre 2016 ha aperto in gap negativo, depresso dai timori su rallentamento cinese e sul rialzo tassi, mentre il dollaro prosegue il rafforzamento nei confronti dell’euro rompendo il supporto a 1.10.
Anche nel vecchio continente qualcosa potrebbe muoversi: la Banca centrale europea potrebbe discutere variazioni tecniche dell’attuale schema di acquisto asset già alla riunione di politica monetaria del 20 ottobre, ma per una decisione definitiva potrebbe essere necessario guardare a dicembre, quando verrà anche stabilito se prolungare o meno il piano oltre marzo 2017.
L’indice complessivo dei listini europei, l’Euro Stoxx 50, è forse in attesa di segnali forti: dal doppio minimo post brexit sta lateralizzando nell’area dei 3000 punti e si appresta a testare la resistenza strutturale. Dal Sol Levante la Banca centrale del Giappone mantiene fede all’impegno di potenziare il proprio stimolo monetario dichiarando di essere pronti ad un ulteriore allentamento, compreso un taglio dei tassi a breve, nel caso si ritenesse che i benefici superino i costi. Il Quantitative Easing giapponese, al contrario di quello europeo, potrebbe rivelarsi permanente, puntando a finanziare il deficit pubblico e non a ridurlo. Nonostante questo, la corsa dello Yen che imperava da oltre un anno pare subire un arresto, portandosi sui 104 dollari e sui 114 euro.
Petrolio, materie prime e bond: cosa fare adesso
Dal fronte commodities arrivano le grandi emozioni di questo autunno. I prezzi dell’oro, in crollo verticale, sono tornati ai livelli precedenti al referendum Brexit. Gli analisti di Deutsche Bank hanno suggerito che sulla base dei livelli attuali del dollaro e della crescita dell’economia mondiale l’oro potrebbe essere sopravvalutato tra il 20% e il 25%.
Anche il petrolio sta vivendo sedute di correzione: l’accordo raggiunto dall’OPEC circa il congelamento della produzione potrebbe aver già esaurito i suoi effetti dato che il prezzo del petrolio, dopo aver toccato i massimi prossimi ai 54 dollari al barile nella giornata di lunedì 10, è tornato a scendere grazie al nulla di fatto del vertice di Istanbul, in occasione del quale il ministro dell’energia russo ha affermato la volontà di non firmare alcun accordo sulla produzione con i membri dell’OPEC (la Russia è infatti un paese esterno all’Organizzazione). Salvo sorprese da parte del prossimo meeting tra produttori che è atteso a Vienna il 28 e 29 ottobre il primo supporto al rintracciamento del petrolio è attorno ai 48 dollari.
La depressione delle quotazioni del Brent ha avuto ripercussione anche sul forex, in particolare sulla corona norvegese, con conseguenze anche sui corsi azionari ed obbligazionari del Paese scandinavo: la Norvegia è infatti un grande esportatore di greggio in Nord Europa.
È importante spendere qualche parola sulle condizioni dei mercati obbligazionari: nelle economie avanzate i tassi potrebbero mantenersi molto bassi a lungo con conseguenze importanti sui portafogli obbligazionari. In Europa, con poche eccezioni rappresentate dai Paesi periferici, oltre metà delle obbligazioni governative presenta rendimenti negativi, che hanno spinto gli investitori a inseguire il rendimento aumentando la duration dei loro portafogli obbligazionari governativi. Ne è seguito un appiattimento delle curve di rendimento nonché un aumento dell’“effetto gregge”, con gli investitori concentrati sui medesimi titoli. Le banche centrali, poi, possiedono fino al 30% di tutto il debito governativo delle principali economie sviluppate, ma giocano con regole diverse rispetto agli investitori, perché non perseguono ritorni ma ambiscono a generare inflazione e crescita, ignorando quindi i livelli di prezzo.
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